LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  Camera  di  consiglio  ha  pronunciato  la  seguente
ordinanza.
    Letti  gli atti del processo a carico di Guardavascio Salvatore e
Averna Maria (iscritto al n. 482/06 R.G. App.);
    Decidendo   sull'eccezione,  formulata  dal  p.g.  con  nota  del
5 aprile    2006    concernente    la   legittimita'   costituzionale
dell'art. 593  c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006,
e  dell'art. 10  della medesima legge, in relazione agli artt. 3, 97,
111, secondo comma, prima e seconda parte, e settimo comma, 112 della
Costituzione,  per violazione dei principi di eguaglianza, di parita'
delle   parti   nel   processo,  di  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione,   di   ragionevole   durata   del   processo   e  di
obbligatorieta' della azione penale;

                            O s s e r v a

    In  data  9  marzo 2006 e' entrata in vigore la legge 20 febbraio
2006,  n. 46 il cui art. 1 ha modificato l'art. 593 c.p.p., limitando
la  possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
le sentenze di proscioglimento alla sola ipotesi di cui all'art. 603,
comma 2, c.p.p., «se la nuova prova decisiva».
    In  tale  residuale  ipotesi  il  giudice,  ove  non  disponga la
rinnovazione  dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza
l'inammissibilita'  dell'appello  e  le  parti,  entro quarantacinque
giorni dalla notifica del provvedimento, possono proporre ricorso per
cassazione anche contro la sentenza di primo grado.
    L'art. 10,  nel  dettare  la  disciplina  transitoria, dispone al
comma   2   che   «l'appello   proposto   contro   una   sentenza  di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge viene dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile» ed al comma 3 che «entro
quarantacinque   giorni   dalla   notifica   del   provvedimento   di
inammissibilita'  di  cui al comma 2 puo' essere proposto ricorso per
cassazione contro le sentenze di primo grado».
    Ne  consegue  che  in  applicazione della legge n. 46 del 2006 la
Corte,   nel   presente  giudizio,  dovrebbe  emettere  ordinanza  di
inammissibilita'  dell'appello  proposto dal p.m. avverso la sentenza
di assoluzione.
    Deve  quindi  evidenziarsi la palese rilevanza della questione di
legittimita' costituzionale proposta in quanto la normativa indicata,
come   gia'   esposto,  e'  applicabile  in  forza  della  disciplina
transitoria anche al presente giudizio di appello.
    Un  profilo di illegittimita' costituzionale e' stato dedotto dal
p.g.,   con   riferimento   alla   disciplina   transitoria   dettata
dall'art. 10,  ritenuta  in contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte
in  cui non consente per i processi in corso la possibilita' prevista
in  regime  ordinario  dal  novellato  art. 593,  comma  2  c.p.p. di
appellare  la  sentenza  di  proscioglimento  nelle  ipotesi  di  cui
all'art. 603, comma 2, c.p.p., «se la nuova prova e' decisiva».
    Deve  al riguardo evidenziarsi la palese irrilevanza nel presente
processo  della  dedotta  questione  non  avendo  il  p.g.  formulato
nell'atto di appello la richiesta di ammissione di nuova prova.
    Del  pari irrilevante deve ritenersi la questione di legittimita'
costituzionale  prospettata  dal p.g. con riferimento alla disciplina
transitoria  (art. 10, comma 2, legge n. 46/2006) a norma della quale
l'appello   proposto  contro  una  sentenza  di  proscioglimento  dal
pubblico ministero deve essere dichiarato inammissibile con ordinanza
non impugnabile, in contrasto con l'art. 111, settimo comma Cost. che
consente  «sempre»  il  ricorso in cassazione per violazione di legge
contro le sentenze ed i provvedimenti sulla liberta' personale.
    Si osserva al riguardo che la questione risulta intempestivamente
proposta  risultando  peraltro  opportuno  evidenziare  che eventuali
profili  di  incostituzionalita' della normativa transitoria dovranno
essere    eccepiti    solo   nel   caso   in   cui   sia   dichiarata
l'inammissibilita'  dell'appello  ed il pubblico ministero ritenga di
proporre  la  relativa  ulteriore  impugnazione  dinanzi alla suprema
Corte.
    Il  p.g.  ha  altresi'  eccepito  l'illegittimita' costituzionale
della  nuova  normativa  per violazione dei principi di uguaglianza e
ragionevolezza   (art. 3  Cost.)  sotto  il  profilo  della  ritenuta
introduzione   di  una  disparita'  di  trattamento  derivante  dalla
asserita  persistente facolta' in capo alla parte civile di appellare
le sentenze di proscioglimento.
    La questione deve ritenersi manifestamente infondata ritenendo la
Corte che la dedotta disparita' di trattamento non sussista.
    L'art. 576  c.p.p. previgente consentiva invero alla parte civile
di  proporre  impugnazione,  ai  soli  effetti  della responsabilita'
civile,   contro  la  sentenza  di  proscioglimento  pronunciata  nel
giudizio,  «con  il mezzo previsto per il pubblico ministero», in tal
modo  espressamente  riconoscendosi  alla  stessa  parte  il  rimedio
dell'appello,  e  cio'  nel rispetto del principio della tassativita'
delle  impugnazioni sancito dall'art. 568, comma 1 c.p.p., in base al
quale  i  provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione nei
soli  casi  previsti  dalla  legge  e  soltanto  con  quel  mezzo  di
impugnazione che la legge stessa preveda.
    Tuttavia,  a  seguito  della modifica apportata dall'art. 6 della
legge  20 febbraio 2006, n. 46, l'art. 576 e' stato modificato con la
soppressione  delle  parole  «con  il  mezzo previsto per il pubblico
ministero»,  in  tal  modo  eliminandosi  quell'espresso  rinvio, che
consentiva alla parte civile di godere del medesimo potere di appello
spettante al pubblico ministero.
    Ne consegue che, in presenza di un generico riferimento al potere
di impugnazione della parte civile ed in mancanza di una disposizione
di  legge,  che  riconosca  espressamente  alla  stessa il diritto di
appellare  le sentenze di proscioglimento, l'unico rimedio esperibile
dalla parte civile sara' quello del ricorso per cassazione, in virtu'
della   norma   contenuta  nell'art. 568,  secondo  comma  c.p.p.  e,
comunque, nell'art. 111 della Costituzione.
    Il  profilo  di illegittimita' costituzionale dedotto dal p.g. in
riferimento  al  ritenuto  contrasto del nuovo art. 593 c.p.p. con il
principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112 Cost.) e'
manifestamente infondato.
    La  tesi  del  p.g.  secondo cui l'obbligo di promuovere l'azione
penale  ricomprende  anche  il  potere  di  impugnazione del pubblico
ministero   e'   stata   gia'   piu'   volte   respinta  dalla  Corte
costituzionale  che ha escluso la violazione dell'art. 112 Cost. «non
costituendo  il  potere  di  impugnazione  del pubblico ministero una
estrinsecazione   necessaria   dei   poteri   inerenti  all'esercizio
dell'azione penale» (cfr. ordinanze n. 110 e 165 del 2003, n. 347 del
2002 e n. 421 del 2001).
    Gia'  con  sentenza  n. 280 del 1995 la Corte ha invero affermato
che  «il potere di appello del pubblico ministero non puo' riportarsi
all'obbligo  di  esercitare  l'azione  penale come se di tale obbligo
esso  fosse  -  nel  caso  in  cui  la  sentenza di primo grado abbia
disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione
necessaria  ed ineludibile», rilevando altresi' che «tutto il sistema
delle  impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello ... depone
nel  senso  che  il potere del pubblico ministero di proporre appello
avverso  la  sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne
possa   apparire   istituzionalmente  doveroso  l'esercizio,  non  e'
riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale».
    Il   principio  dell'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione
penale,  costituzionalmente  previsto  e  garantito,  non puo' dunque
invocarsi  con  riferimento  alla  proposizione,  solo discrezionale,
dell'appello  da parte del pubblico ministero contro una sentenza che
abbia  ritenuto  infondata  la  sua  pretesa  punitiva, specie ove si
consideri  che  la mancata impugnazione non deve in alcun modo essere
motivata e ad essa, se proposta, puo' persino rinunciarsi.
    Manifestamente  infondato  si appalesa anche il dedotto contrasto
del  novellato  art. 593  c.p.p.  con  il principio della ragionevole
durata  del  processo  (art. 111, secondo comma, seconda parte Cost.)
risultando  sufficiente  al  riguardo rilevare che la riduzione della
possibilita'  per  il  pubblico  ministero  di  proporre impugnazione
avverso  le sentenze di proscioglimento, con conseguente soppressione
di  un  grado  di  giudizio, e la limitata possibilita' di far valere
direttamente  dinanzi alla Corte di cassazione i vizi di legittimita'
che  la  inficino,  assicurano al complessivo sistema della giustizia
una incontestabile e palese economia di tempi.
    Ne'  ha rilievo il richiamo del p.g. alla ipotesi che la Corte di
cassazione  annulli  la sentenza di assoluzione con rinvio al giudice
di primo grado dinanzi al quale dovrebbe celebrarsi un nuovo giudizio
di  merito  la  cui  durata  sara'  di  gran  lunga maggiore rispetto
all'attuale giudizio di appello.
    E' evidente infatti che in caso di annullamento con rinvio, tutta
l'attivita'  istruttoria compiuta, salvo casi limitati, conserverebbe
la   sua   validita'  ed  efficacia  probatoria,  riducendo  comunque
notevolmente i tempi del nuovo giudizio di merito.
      Sono  altresi' manifestamente infondate le censure sollevate in
riferimento  all'art. 97  Cost., avendo la Corte di legittimita' piu'
volte  affermato  che  «il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione     -    pur    concernendo    anche    gli    organi
dell'amministrazione  della  giustizia  - si riferisce esclusivamente
alle  leggi  relative  all'ordinamento  degli uffici giudiziari ed al
funzionamento   di  questi  ultimi  sotto  l'aspetto  amministrativo,
risultando   di   per   se'  estraneo  all'esercizio  della  funzione
giurisdizionale»  (v.  ordinanze  n. 110  del 2003, n. 370 del 2002 e
n. 412  del 1999; nonche' sentenze n. 115 del 2001, n. 381 del 1999 e
n. 53 del 1998).
    Rileva   invece   la  Corte  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 593  in riferimento al principio di parita'
delle  parti  (artt. 3  e  111, secondo comma, prima parte Cost.) non
appare   manifestamente  infondata  nei  limiti  in  cui  il  giudice
ordinario deve effettuare il suo preliminare esame, senza interferire
con  i  poteri propri della Corte di legittimita' cui e' demandato in
via  esclusiva  il  compiuto  giudizio  in ordine alla compatibilita'
costituzionale della normativa.
    E'  noto che la questione della limitazione del potere di appello
del  p.m.  e'  gia'  stata affrontata dalla Corte costituzionale, con
specifico riferimento al giudizio abbreviato.
    L'art. 443,  comma  3  c.p.p.  prevede  infatti  che  il pubblico
ministero  non  possa proporre appello contro le sentenze di condanna
pronunciate  nel  giudizio abbreviato salvo che si tratti di sentenza
che modifica il titolo del reato.
    Con  l'ordinanza  n. 165  del  2003  la  Corte  ha  dichiarato la
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 443,  comma  3,  sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3,
24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione.
    La Corte costituzionale ha evidenziato, in riferimento al dedotto
contrasto della disposizione impugnata con gli artt. 3 e 111, secondo
comma,  Cost.,  che il principio di parita' delle parti «non comporta
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero  e  quelli  dell'imputato»,  affermando  tuttavia  che  una
disparita'  di  trattamento  puo'  risultare giustificata «nei limiti
della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del
pubblico  ministero,  sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia».
    Con  la  conseguenza  che,  nel  caso del giudizio abbreviato, il
limite   all'appello   della   parte   pubblica  continua  a  trovare
ragionevole  giustificazione  nell'obiettivo  primario della rapida e
completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con un rito
che   implica   una  decisione  fondata,  in  primis,  sul  materiale
probatorio   raccolto   dalla   parte   che  subisce  la  limitazione
denunciata,  fuori  delle  garanzie  del  contraddittorio (cfr. anche
ordinanza  n. 347  del  2002;  e,  con  riferimento al solo art. 111,
secondo comma, Cost., ordinanza n. 421 del 2001).
    E'  dunque la rinuncia da parte dell'imputato ad uno dei principi
del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a
giustificare  la  disparita'  di  trattamento  che l'art. 443 comma 3
c.p.p.  produce  privando  il  p.m.  della  facolta'  di appellare la
sentenza di condanna a seguito di giudizio abbreviato.
    Non  sembra  dunque  che  la  Corte abbia finora mai affermato il
principio  della  conformita'  costituzionale  di  una  disparita' di
poteri  fondata  solo  sulla  diversa  qualita' della parte (pubblico
ministero  o  imputato),  avendo invece sempre affermato il principio
opposto  secondo  cui  occorre  dare  conto delle ragioni che rendono
razionale  la  differenziazione nei casi di volta in volta sottoposti
al suo vaglio.
    E'  stato  pertanto  affermato il principio che una disparita' di
trattamento  riguardo  ai  poteri  processuali del pubblico ministero
puo'  essere  giustificata  nei  limiti  della  ragionevolezza  dalla
peculiare  posizione  istituzionale  del  pubblico  ministero,  dalla
funzione  allo  stesso  affidata,  ovvero infine da esigenze connesse
alla corretta amministrazione della giustizia.
    La  Corte  di legittimita' sin dal 1991 (cfr. n. 363 del 1991) ha
ritenuto  costituzionalmente  compatibile  una  differenziazione  dei
poteri   processuali   del   pubblico  ministero  rispetto  a  quelli
dell'imputato  e  del  suo  difensore, sottolineando tuttavia che «in
ogni caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per
essere  conforme  a  Costituzione,  dovra'  trovare  una  ragionevole
motivazione»  proprio  nella  peculiare  posizione  istituzionale del
pubblico  ministero,  nella  funzione  allo  stesso  affidata,  nelle
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
    Anche  con  l'ordinanza  n. 110 del 2003 e' stato ribadito che il
principio di parita' tra accusa e difesa di cui all'art. 111, secondo
comma  Cost., riconosciuto peraltro come «pacificamente gia' presente
fra  i  valori  costituzionali  anche prima delle modifiche apportate
dalla  legge  costituzionale  n. 2  del  1999»,  pur  non comportando
necessariamente  l'identita'  tra  i  poteri processuali del pubblico
ministero  e  quelli  delle  altre  parti,  e' rispettato solo se una
diversita'  di  trattamento sia stabilita ragionevolmente nell'ambito
delle  scelte discrezionali del legislatore, proprio in ragione della
peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero.
    In  tal  senso si e espresso anche il Presidente della Repubblica
nel  messaggio  con  il  quale  il  20 gennaio  2006  ha  rinviato al
Parlamento   la   legge   sull'inappellabilita'   delle  sentenze  di
proscioglimento  dopo la sua prima approvazione, laddove si evidenzia
come  la  soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento
«a  causa  della  disorganicita'  della  riforma fa si' che la stessa
posizione  delle  parti nel processo venga ad assumere una condizione
di  disparita'  che supera quella compatibile con la diversita' delle
funzioni  svolte dalle parti stesse nel processo» e si sottolinea che
«le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'articolo  111  della  Costituzione,  a  norma  del  quale: "Ogni
processo  si  svolge nel con traddittorio tra le parti, in condizioni
di parita', davanti a giudice terzo e imparziale"».
    Orbene, la soppressione del potere di impugnazione delle sentenze
di  proscioglimento  da  parte del p.m., introdotto dalla legge n. 46
del 2006, salva la residuale, e certamente eccezionale, ipotesi della
scoperta   di   una   prova  nuova  e  decisiva  nel  limitato  tempo
intercorrente  tra  la deliberazione della sentenza e la scadenza del
termine per appellare, non sembra trovare ragionevole giustificazione
nei   limiti   richiesti   dalle   richiamate  pronunce  della  Corte
costituzionale.
    La  riforma  infatti  sottrae  solo ad una parte lo strumento del
nuovo  giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della
sua  pretesa  punitiva,  violando il principio sancito dall'art. 111,
secondo  comma  Cost.  che  prevede  che  il  processo  si  svolga in
condizione  di  parita'  tra le parti, assicurando a ciascun soggetto
processuale  eguali  strumenti  per  raggiungere  gli  obiettivi suoi
propri, dovendo tale principio essere inteso nel senso piu' ampio con
riferimento alla pronuncia conclusiva sulla propria domanda.
    Risulta  invero  oltremodo  riduttivo  ritenere  che il principio
della  parita'  tra le parti di cui all'art. 111, secondo comma Cost.
sia  previsto  solo  con  riferimento  alla  fase del dibattimento ed
all'acquisizione  della  prova,  dovendo  invece  ritenersi  che esso
tuteli  il diritto all'intervento dialettico delle parti in ogni fase
del  giudizio e dunque anche il diritto alla critica in condizioni di
parita'    della   decisione   finale   del   giudizio   che   appaia
insoddisfacente per l'una o per l'altra parte.
    Lo  squilibrio  fra  le parti introdotto dalla riforma non appare
ragionevolmente  compatibile  con  i  criteri  che  la  stessa  Corte
costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Non  sembra  esservi  infatti  alcuna ragionevole giustificazione
della disparita' nell'attribuzione del potere di impugnazione, finora
riconnessa,   come   nell'ipotesi   gia'  esaminata  dalla  Corte  di
legittimita'  del  giudizio  abbreviato, a istituti deflattivi in cui
rinunce  dell'imputato  producono  il  risultato  apprezzabile  della
definizione piu' sollecita del processo.
    Giova  peraltro  evidenziare  che l'avere lasciato esclusivamente
all'imputato  lo  strumento di un nuovo giudizio di merito per vedere
riconosciuta  la  propria  innocenza  sembra contrastare con i canoni
della  ragionevolezza  anche  in  considerazione del fatto che, in un
sistema  nel  quale  «il  doppio grado di giurisdizione di merito non
forma  oggetto di garanzia costituzionale» (cfr. ordinanza n. 421 del
2001),  «non  e' la doppia istanza che garantisce la completa difesa,
ma  piuttosto  la possibilita' di prospettare al giudice ogni domanda
ed   ogni  ragione  che  non  siano  legittimamente  precluse»  (cfr.
ordinanza n. 316 del 2002).
    Si  osserva  che  la  indispensabilita' di un secondo giudizio di
merito   troverebbe   fondamento   nell'art. 2   del  VII  Protocollo
addizionale  alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo,  firmato  a  Strasburgo  il  22 novembre  1984,  rubricato
«Diritto  ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale», che
al  suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata
rea da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore».
    Ma  a tale osservazione si obietta fondatamente che e' proprio la
medesima  fonte  internazionale  a  prevedere  il  riconoscimento del
«diritto  ad  un  doppio grado di giurisdizione» anche a favore della
parte pubblica, se e' vero che il secondo comma del menzionato art. 2
sancisce  che  il  diritto al secondo giudizio di merito «puo' essere
oggetto  di  eccezioni»,  tra  l'altro,  proprio  nell'ipotesi in cui
l'imputato  «e'  stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di
un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    Se  dunque  il legislatore consente ad una parte di sottoporre la
decisione   ad   un   controllo   critico  da  parte  di  un  giudice
sovraordinato,  tale  diritto  non  puo'  non essere assicurato anche
all'altra   parte,   salvo  che  sussistano  ragionevoli  motivi  che
legittimino la disparita' di trattamento.
    Il  contrasto  con il canone della ragionevolezza emerge altresi'
dal   rilievo  -  anch'esso  sottolineato  nel  menzionato  messaggio
Presidenziale  del  20 gennaio 2006 («Un'ulteriore incongruenza della
nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico ministero totalmente
soccombente  non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito
quando  la  sua  soccombenza  sia  solo parziale, avendo ottenuto una
condanna  diversa  da  quella richiesta») - che la nuova normativa fa
salvo  il potere del p.m. di appellare la sentenza di condanna ad una
pena  ritenuta  inadeguata,  laddove  e'  incontestabile  il maggiore
interesse  della  parte  pubblica  ad appellare la sentenza che abbia
respinto l'istanza punitiva.
    Ne'  pare  conducente  l'osservazione  secondo  cui  la  modifica
apportata  dall'art. 5,  legge  n. 46  del 2006 all'art. 533, comma 1
c.p.p.,  nella  parte in cui impone che il giudice pronuncia sentenza
di  condanna  solo se l'imputato risulta colpevole «al di la' di ogni
ragionevole  dubbio»,  giustificherebbe la soppressione del potere di
appello della sentenza assolutoria da parte del p.m., sul rilievo che
non  puo'  ammettersi  la  condanna  di  un  imputato pronunciata dal
giudice  di appello dopo che il giudice di primo grado lo ha assolto,
cosi'  ritenendo sussistente almeno il «ragionevole dubbio» della sua
colpevolezza.
    La  regola  introdotta  dalla  nuova  legge, invero, non presenta
sostanziali  caratteri di novita' rispetto alla previgente disciplina
limitandosi  a prevedere espressamente sul piano normativo quanto era
stato  gia'  affermato  in  giurisprudenza  anche dalle Sezioni unite
della    suprema    Corte    in    ordine    alla    riconducibilita'
dell'insufficienza,   della   contraddittorieta'   e  dell'incertezza
probatoria, previste dall'art. 530, comma 2, c.p.p., al «plausibile e
ragionevole dubbio» (cfr. Sez. unite, sent. n. 30328 del 2002).